ANTICIPAZIONI POLISCRITTURE N.8: Ennio Abate,
Gli anni Settanta nel «panorama storico» di La Grassa
1. Tempo fa un giovane storico mi confidò che, a suo parere, molti colleghi più anziani di lui erano rimasti fissati (questo il termine usato) agli anni Settanta. Non gli dissi che anch’io, senza essere storico, torno spesso su quegli anni; e, anzi, ho tentato invano di indurre amici, che come me da lì politicamente e culturalmente vengono, a rifletterci assieme. La damnatio memoriae non cede. Ogni tanto, però, scopro con piacere che qualcuno non li liquida come «i peggiori della nostra vita»[1] e ci torna su quegli anni in modi non banali.
È il caso di Raffaele Donnarumma, che in un saggio dedicato al «terrorismo nella narrativa italiana»,[2] si attesta sulla posizione moderata di chi «combatte da anni per impedire l’equiparazione tra gli anni Settanta e gli anni di piombo»[3] e così sintetizza il trapasso da un’epoca a un’altra avvenuto allora:
«L’impressione che gli anni tra il 1968 e il 1978, per scegliere come estremi imprecisi le date simbolo della contestazione e dell’omicidio di Aldo Moro, siano stati l’ultima età eroica della Repubblica – l’ultima età, cioè, in cui i destini personali si potevano identificare con quelli collettivi, in cui si consumavano i grandi conflitti, e in cui ciascuno poteva legittimamente pretendere di fare la storia – porta con sé una certa aria di retorica e di nostalgia, ma è tutt’altro che infondata». (p. 437)
Il saggio mi pare ottimo non per il giudizio più o meno “equanime” oggi comune a molti ex-sessantottini e che a me pare “addomestichi” un po’ la storia di allora, ma perché, occupandosi d’immaginario letterario (e dichiaratamente soltanto di quello narrativo) e distinguendolo correttamente dalla verità storica (i due piani, dice, «sono sempre sfalsati»), esamina diversi casi di scrittori allora di punta[4] e dimostra quanto gli eventi furono vissuti mitologicamente[5] e in preda ad una «angoscia di spossessamento di fronte agli avvenimenti». Tale sentimento non riguardò, per la precisione, solo narratori o “intellettuali”, ma fu diffuso tra la “gente comune”. Come lo furono le ambivalenze nei confronti del terrorismo[6] e un groviglio, mai chiarito e contraddittorio, di paure, aspirazioni e ideologie, tanto che, come sottolinea Donnarumma, una memoria condivisa su quei fatti è tuttora impossibile.[7] E il lavoro degli storici, anticipo, non è riuscito a ridurre di molto questa oscurità. Un’affermazione che Donnarumma fa, quasi en passant, sul Pci di allora, che «sino alla metà degli anni Settanta, negava l’esistenza di una lotta armata di ispirazione marxista», (p. 450-451) mette poi il dito sulla principale causa politica di tale oscurità; e può introdurre la revisione di quegli anni compiuta da Gianfranco La Grassa in due suoi scritti apparsi di recente sul sito CONFLITTI E STRATEGIE: Un decennio cruciale e Un succinto panorama storico (del tutto personale, non da storico).[8] Altre revisioni sono in corso d’opera, a riprova che almeno i “vecchi” su quelle vicende riflettono,[9] ma questa di La Grassa[10] mi ha attratto e sfidato, per la sua radicale critica non solo alle posizioni della sinistra comunista, poi diventata semplicemente “democratica”, ma anche al “sessantottismo”, che allora contestò la “sinistra storica” e il “sistema” e che fu la matrice del mio impegno militante (dal 1968 al 1976) in Avanguardia Operaia.
2. Perché cruciali per La Grassa gli anni Settanta? Perché, detto in sintesi, sono gli anni del «compromesso storico», un «mutamento fondamentale», che ha segnato la decisiva e non scontata «svolta in senso filo-atlantico» del Pci, il più grande partito comunista d’Occidente (come si diceva in quegli anni), ed ha condizionato la successiva storia italiana. Egli così riassume le tappe principali di quel decennio: 1) 1973: lettura berlingueriana del colpo di Stato in Cile (11 settembre); 2) 1975: firma del patto sulla scala mobile tra la Confindustria guidata da Agnelli, rappresentante principale del capitale famigliare “privato” e Lama, rappresentante dei sindacati in cui allora predominava la CGIL; 3) 1976: appoggio esterno del Pci al Governo di unità nazionale di Andreotti; 4) 1978: viaggio a Washington del “primo ambasciatore” (non ufficiale) del Pci, Giorgio Napolitano, allora considerato il n. 2 della corrente “amendoliana”[11]; 5) ancora 1978: «affaire Moro»,[12] che vide Dc e Pci rifiutare le trattative per la liberazione dello statista democristiano, mentre il Psi, che dal ’76 era guidato da Bettino Craxi, si mostrò più “flessibile”; 6) 1980: sconfitta della Cgil alla Fiat sancita dalla “marcia dei 40.000 quadri”, dopo l’inefficace sciopero dei 35 giorni.
3. Nel secondo scritto, un corposo saggio, gli anni Settanta vengono riesaminati in un «panorama storico» che va dalla caduta del fascismo ad oggi. Per La Grassa quegli anni, proprio per essere stati gli anni del «compromesso storico» (aspetto politico principale), non sono riducibili ad “anni di piombo”, a “storia criminale” da imputare, secondo una stupida moda, al “comunismo”[13] (aspetto politico secondario, per quanto drammatico e scioccante sul piano dell’immaginario). La lotta politica, che allora si svolse, fu ben più complessa di quanto appaia o si sappia, perché su quegli anni è prevalso «complessivamente un atteggiamento di nascondimento della realtà». La nascose, tra gli altri, il Pci, il quale fece mostra di vedere nelle Brigate Rosse esclusivamente la “reazione in agguato” (solita Cia o Fbi, ecc.). L’hanno nascosta pure la “sinistra comunista” (ingraiani) e i gruppi extraparlamentari (Avanguardia operaia, Lotta Continua, il manifesto-Pdup), che cercarono di separare come potevano la problematica del “terrorismo” (o della violenza armata) da quella dei movimenti del ’68-69, che pur si dicevano (almeno in certi settori) “rivoluzionari”, riconobbero solo man mano che i “terroristi”[14] appartenevano “all’album di famiglia” e comunque diedero una interpretazione del fenomeno, che egli giudica «buonista e democraticista». Per la precisione, secondo La Grassa, i silenzi o le reticenze hanno riguardato: 1) «la sconfitta del “socialismo”, pur non ancora sanzionata ufficialmente dal 1989»; 2) l’atteggiamento diffuso di rivolta e di resistenza di vari ambienti del Pci al compromesso storico e alla (per La Grassa) «ormai evidente (pur mascherata) svolta del Pci» in senso filo atlantico;[15] 3) «il sommovimento, coperto, che si stava producendo all’est pur nell’apparente immobilismo e cristallizzazione dell’epoca brezneviana» (il 1968 cecoslovacco, i successivi fatti polacchi (Walesa, ecc.), ma anche «le fratture a livello delle dirigenze dei paesi europei orientali», almeno di quelle (Cecoslovacchi, tedeschi della DDR, ecc) che cominciavano a temere troppo dai cedimenti progressivi di settori dell’Urss (che poi prenderanno il potere con Gorbaciov) verso gli Usa». Contestualizzati storicamente (sia pur «da non storico») gli anni ’70, La Grassa procede a una revisione severissima della politica dell’intera sinistra; e in particolare della storia dei gruppi dirigenti del Pci[16] e del «“sessantottismo” movimentista». Egli vede in quel decennio la gestazione lenta[17] di processi, che, dopo il “crollo del muro” di Berlino del 1989 e della dissoluzione dell’Urss (1991), verranno sempre più a galla. Sempre però - aggiunge - in forme deviate, distorte, tanto da bloccare la vita politica italiana per oltre un ventennio sul dilemma “Berlusconi sì oppure no”, mascherando ben altri, più reali, pesanti e irrisolti dilemmi di politica interna e internazionale (soprattutto nei confronti degli Usa).
4. Quel decennio per La Grassa è cruciale per un’altra ragione: ha visto ripetersi in altre forme le scelte trasformistiche che avevano già caratterizzato la storia italiana al momento della caduta del fascismo, tanto che è possibile stabilire un’analogia[18] tra gli eventi del ’43-45 e quelli degli anni Settanta. Come allora, per La Grassa, vinse «“l’antifascismo dei traditori”», così negli anni Settanta hanno vinto, a partire dal «compromesso storico», «quelli che hanno tradito la storia del Pci».[19] Semplificando qui il suo ragionamento, egli sostiene questo: il gruppo dirigente del Pci s’era convinto da tempo che in Urss, paese di riferimento della sua politica, non era in atto nessuna costruzione del socialismo; e che quel sistema non era correggibile con “iniezioni di democrazia”;[20] ma, invece di iniziare (subdolamente e in modi mascherati) una svolta filo atlantica e finire per subordinarsi agli Usa (come già aveva fatto, appunto, “l’antifascismo del tradimento”[21] dal ‘43), avrebbe dovuto/potuto puntare, sia pur in una logica difensiva del “salviamo il salvabile”, a far nascere una buona socialdemocrazia; questa avrebbe potuto giocare le sue carte sul piano internazionale a favore di una ostpolitik, che avrebbe rafforzato un’autonomia dell’Italia, purtroppo sempre conculcata;[22] invece, con il «compromesso storico» il Pci si è consegnato definitivamente tra le braccia stritolatrici del capitalismo famigliare (Fiat in primis) e degli Usa, che di quel capitalismo italiano da sempre si sono serviti come loro agente principale e più fido.
5. La Grassa ripropone, dunque, alcune ipotesi non inedite, ma scomodissime, aleggiate in passati dibattiti, ma poi accantonate e silenziate:
5.1. Con un non troppo implicito accostamento tra l’uccisione di Moro e l’omicidio di Enrico Mattei nel 1962,[23] egli ripropone la tesi che Moro poteva essere salvato e invece fu deciso (da chi?) di farlo perire:
«si verifica l’affaire Moro, i cui contorni non sono ancor oggi per nulla chiariti (anzi sono del tutto oscuri), salvo lo schieramento dei partiti: Dc e Pci per non trattare affatto e lasciar condannare lo statista diccì, il Psi interessato a salvarlo. Ci si dice, ormai da qualche tempo, che era stato infine scelto di intavolare una trattativa, ma che qualcuno suggerì ai brigatisti di uccidere Moro poche ore prima che venisse ufficialmente annunciata tale decisione. Non mi pronuncio perché la faccenda è rimasta sempre avvolta nella nebbia più fitta. In ogni caso, rilevo solo quelle posizioni: Dc-Pci, in pieno “compromesso storico”, stretti assieme nell’intransigenza, il nuovo Psi interessato a rompere questa tenaglia salvando Moro. Uscendo vivo, questi non avrebbe rivelato pubblicamente nulla, ma avrebbe saputo come agire nei confronti di chi non sembrava volerlo vivo. Ecco una pagina di storia che qualcuno dovrebbe chiarire; ma occorre una nuova generazione, che esca dalla putrefazione preparata fin da allora e attuata dopo il 1991, anche tramite l’operazione “mani pulite”».[24]
5.2. È esistito ed esiste nella storia italiana un contrasto sordo tra un capitalismo familiare e un capitalismo pubblico, contrasto che oggi La Grassa giudica ben più determinante di quello tra capitale e lavoro, specialmente se si tenga presente la cornice della storia mondiale, che ha visto il passaggio irreversibile da un capitalismo industriale ottocentesco (quello ben studiato e scientificamente rappresentato nell’opera di Marx, soprattutto in Das Kapital) a nuove forme di capitalismi (il plurale è decisivo per La Grassa), che sono guidati da inedite figure di capitalisti, i «funzionari del capitale», non più assimilabili ai rentier o ai “padroni delle ferriere”. E il prototipo moderno dei nuovi capitalismi, affermatosi per la prima volta proprio negli Usa ai tempi della Prima guerra mondiale, è per La Grassa mille volte preferibile a quello borghese e familiare,[25] che tuttora domina in Italia (ma subordinato, però, a quello statunitense) non può essere capito e affrontato con la sola teoria del conflitto capitale/lavoro di Marx.[26] In tutto il suo «panorama storico» La Grassa torna con insistenza su questo punto. Il blocco di potere legato alla Fiat e agli Agnelli alla testa della Confindustria ha giocato in Italia un ruolo deleterio. Perché questo capitalismo familiare[27] ha stabilizzato la “ridotta modernità” dello sviluppo industriale italiano subordinandolo a quello statunitense.
5.3. Altrettanto nefasta è sul piano culturale per La Grassa l’azione svolta dal quotidiano Repubblica. Fondato nel gennaio 1976, esso si distinse da subito per il suo appoggio al “compromesso storico”. Particolarmente in tema con questo numero di «Poliscritture» su revisioni e revisionismi è quanto La Grassa scrive sul contributo dato da «Repubblica» al «profondo snaturamento dell’antifascismo resistenziale». Il giornale ha per lui incoraggiato una lettura democraticistica della Resistenza, presentata esclusivamente come processo di “liberazione”, soprattutto grazie agli americani, dal giogo nazifascista.[28]
5.4. Craxi avrebbe potuto costruire un’alternativa al «compromesso storico» e alla «svolta filo atlantica» del Pci. Secondo La Grassa, infatti, il leader del Psi, avendo ormai rotto con la tradizione del socialismo italiano, voleva una vera modernizzazione dell’Italia. Egli avrebbe dovuto conquistare forti appoggi nel settore del capitale pubblico e non sprecare l’occasione di allearsi con gli amendoliani (la “destra” del Pci, i “miglioristi”). Questi, a suo avviso, erano «veri socialdemocratici interessati alla produttività del sistema, allo sviluppo di imprese di grandi dimensioni ma di punta, cui dovevano collegarsi i cosiddetti “ceti medi produttivi”, i piccolo-medi imprenditori, i lavoratori “autonomi”, ecc.»; e soprattutto rappresentavano all’interno del Pci una corrente «tendenzialmente filo-sovietica», che, interessata all’ostpolitik, puntava a uno sviluppo delle imprese strategiche italiane, che non si confinasse nell’atlantismo di marca statunitense e «avrebbe dunque potuto tentare la carta di una maggiore autonomia nazionale». Tale prospettiva fallì per limiti culturali di Craxi. Il leader socialista non capì che il comunismo non esisteva più né in Urss né nell’Europa orientale e tanto meno in Amendola, e, intestardito nel contrastare il Pci, imboccò la via (nell’immediato impraticabile dagli amendoliani) di rivalutare Proudhon contro Marx. La cecità “anticomunista” di Craxi gioverà all’altra “corrente” del Pci, quella ingraiana, che, alleatasi con Berlinguer, svolgerà la sua funzione estremamente negativa al momento del crollo del “campo socialistico”.
5.6. Limiti della «“modernizzazione” sessantottesca». Secondo La Grassa il passaggio dell’Italia da paese agricolo-industriale a paese industriale, passaggio avvenuto con il «boom economico» tra 1953 e 1958 e sotto la guida del capitalismo familiare,[29] produsse un imponente inurbamento di masse contadine (il cosiddetto «esodo biblico» delle migrazioni interne) e anche un ingresso nelle università di molti figli dei «ceti “piccolo-borghesi” in arricchimento». Ne derivò «una sorta di “connubio conflittuale”» tra le masse di lavoratori che passavano dalla condizione contadina a quella operaia e il capitalismo italiano familiare. Su tali fenomeni s’innestarono le letture dei gruppi extraparlamentari, che videro nella classe operaia il vero «soggetto rivoluzionario». Ma i gruppi finirono per usare una teoria di Marx già deformata da Kautsky.[30] E diedero interpretazioni altrettanto errate dei Grundrisse,[31] alimentando attese irrealistiche su una «“proletarizzazione” dei tecnici», cioè del «management di medio e medio-alto livello» che si sarebbe potuto/dovuto alleare con la «Classe operaia». Le correnti della sinistra comunista e sessantottesche furono per La Grassa altrettanto superficiali quando si avvicinarono al maoismo e alla stessa scuola althusseriana,[32] interpretando la stessa involuzione “socialistica” (sovietica) «in termini apertamente antileninisti e di semplice “buonismo sociale”» e finendo successivamente per scivolare anch’esse verso il filo-atlantismo berlingueriano. In sostanza, per lui il ’68 fu una «presunta rivoluzione di cui Pasolini colse l’orrore e l’obbrobrio».
5.7. Negli anni Settanta la questione dei «ceti medi» diventò sempre più centrale contro ogni aspettativa dei marxisti ortodossi, senza trovare né allora né dopo una soluzione adeguata da parte di tutti i partiti (di destra e di sinistra) e finendo per alimentare una sua gestione clientelare che ha rafforzato soprattutto i ceti medi improduttivi. Secondo La Grassa dopo il boom, negli anni ’60 e primi ’70, il Pci, soprattutto nella sua parte “migliorista” (socialdemocratica), aveva tentato di costruire una alleanza tra la “classe operaia” e i “ceti medi produttivi”, presenti soprattutto nella zona “bianca” (lombardo-veneta) e in quella “rossa” (toscoemiliana). Quel progetto era un tassello della “via italiana” al socialismo e prevedeva anche «l’alleanza con l’industria pubblica», che il partito avrebbe dovuto sfruttare «in senso antimonopolistico». Da qui lo «statalismo» del Pci, il primato cioè concesso al settore pubblico rispetto al privato (per cui “pubblico era bello e quasi socialista” si potrebbe dire), che però già stava portando al blocco delle forze produttive nelle società dell’Est. Avvenne che, mentre i ceti medi venivano «conculcati ad est», ad ovest il capitalismo, molto più flessibile e smentendo ogni teoria “crollista”, espanse «una sorta di immenso “calderone” di ceti medi, pervasi da una diffusa mentalità “piccolo borghese” (l’“uomo medio”, cioè mediocre, ben dipinto da Pasolini), ma con enormemente differenziati livelli di reddito e con una serie di tipizzazioni professionali e specialistiche ad ogni livello di reddito».[33] E in Italia poi si è arrivati soprattutto ad un ampliamento dell settore dell’impiego pubblico (compreso quello degli Enti locali) «creando così infiniti canali di finanziamento per iniziative che poco contribuivano alla “produttività” dell’insieme».[34]
6. A questo punto va fatto almeno un accenno al «panorama teorico»[35] di La Grassa , che è parte integrante e fondamento della sua lettura degli anni Settanta e del «panorama storico» qui riassunto. In quest’altro scritto La Grassa polemizza contro le correnti letture che insistono a presentare Marx come “umanista” o “profeta” del comunismo o, negli ultimi tempi, come un semplice “anticipatore della globalizzazione”. Egli, invece, chiede di rileggere fuori da ogni illusione umanistica e religiosa una “realtà”, quella dei capitalismi e della storia del Novecento, completamente mutata rispetto all’epoca di Marx. Delle «rovine» di quella tradizione salva Adam Smith, perché la sua antropologia «considera che l’impulso fondamentale è l’egoismo»,[36] e Marx, perché smitizza la libertà e l’eguaglianza della società borghese.[37] Poiché, leninianamente, ritiene che «rimettersi alla concretezza empirica senza alcun orientamento teorico, rischia di condurre proprio all’inesatta valutazione dei reali rapporti di forza tra gruppi sociali, o anche tra individui», si pone e pone il compito di «costruire una nuova teoria», che abbandoni in partenza «ogni visione duale di classi antagonistiche in contrasto»[38] e prenda atto dei «fallimenti del comunismo» e, quindi, anche del fallimento (o della “falsificazione”) di «una serie di previsioni marxiane in merito alla dinamica del modo di produzione capitalistico». Il punto più innovativo e problematico della sua attuale ricerca riguarda il primato che per lui hanno assunto le «strategie per acquisire la supremazia» (e quindi il conflitto, la politica).[39]
7. Ho presentato quanto pensa La Grassa sugli anni Settanta e la storia italiana del dopoguerra. A questo punto sarebbe necessaria una discussione serrata delle numerose questioni che essa pone ai potenziali lettori che volessero vagliarla criticamente. Non è possibile svolgerla in questo numero della rivista e perciò mi limito ad avviarla con alcune mie osservazioni e obiezioni:
7.1. Se confronto la revisione «del tutto personale, non da storico» di La Grassa con quelle che sullo stesso periodo hanno condotto i due o tre storici di professione da me letti negli ultimi anni, salta agli occhi la distanza tra il loro punto di vista in senso lato “democratico” e quello di La Grassa, che non ha rinunciato alla lezione di Marx, di Lenin e di Althusser e, quindi, alla critica della “democrazia”. [40] Basti leggere, in particolare, i lavori di Giovanni De Luna e Paul Ginsborg,[41] mentre più accostabile per alcuni versi ad alcune tesi di La Grassa mi sembra l’analisi di Guido Crainz,[42] che ne Il paese mancato sottolinea sia il fallimento della “modernizzazione conservatrice” sia l’impossibilità del compromesso di tipo socialdemocratico.
7.2. La lettura di questi due scritti mi ha costretto a ripensare l’insieme dei condizionamenti storico-politici che incombevano sulla mia esperienza di “militante politico di base” extraparlamentare.[43] Tenendo in debito conto (ma senza esagerare, perché oggi certe distinzioni politiche di allora sembrano cose da “marziani”…) il grado di vicinanza/distanza tra l’area politica in cui militavo (Avanguardia Operaia) e quella a cui faceva riferimento La Grassa (l’area filocinese), mi sento di dire che ci accomunava la critica al Pci (l’”antirevisionismo”) e ci divideva il giudizio sul movimento del ’68-’69: speranzoso il mio fino all’adesione e alla partecipazione attiva; di critica e di netta condanna, , in parte assimilabile alla polemica pasoliniana “contro gli studenti”. Si potrebbe discutere a lungo se quegli strumenti per leggere la realtà , che io (e altri “piccoli borghesi” come me) avevamo tratto dalla partecipazione “spontanea” al movimento del ’68-’69, ci fornissero una percezione approssimativa o del tutto errata di quegli eventi (Cfr. Tre mesi del 1978 in questo stesso numero di «Poliscritture») e se potevano essere sostituiti da altri più “scientifici” (e più efficaci?). Lascio in sospeso il problema.
7.3. Non si dovrebbe dimenticare che le nostre revisioni degli anni Settanta (e della storia dell’Italia del dopoguerra) vengono compiute - problema non trascurabile - dalla condizione di sconfitti (o di “bastonati dalla storia”, come diceva Fortini). «La storia la fanno i vincitori» è un monito ineludibile. Lo ricordo non per invitare alla rassegnazione o al silenzio, ma per evitare certe ripetizioni (che hanno un sapore luttuoso e mortuario per me) della vecchia critica “antirevisionista” che facevamo al Pci di allora e spendere le residue e migliori energie che abbiamo nell’allargare il più possibile - da “vecchi” quali siamo (le revisioni del passato le fanno quasi sempre i “vecchi”) - il varco per intravvedere qualcosa di più della “nuova realtà”. Da una buona consapevolezza della sconfitta delle nostre speranze di allora (o, per chi ce l’aveva, delle ipotesi teoricamente più salde) dovrebbe nascere un atteggiamento più maturo (meno inquinato dal risentimento, dal catastrofismo, dal disprezzo impotente per i”vincitori” o i “traditori”, dal desiderio di rivincita) sia nella revisione del passato che nell’analisi dei nuovi dati del presente in continuo mutamento.
7.4. La mia personale revisione del passato da tempo si è mossa in una direzione che ho chiamato di esodo (innanzitutto dalla sinistra). Ho fatto mie, sulla scorta di Ranchetti e Fortini, le formule di bilancio drastico della tradizione cristiana (da cui provenivo) e di quella comunista (a cui mi ero accostato appunto a partire dal ’68-’69): non c’è più religione; non c’è più comunismo. È per questo, credo, che, a differenza di altri, ho potuto apprezzare la critica di La Grassa alla sinistra e al Pci, anche se dà una valutazione positiva del ”migliorismo” di Amendola o del periodo staliniano, che ancora oggi non condivido; e prendere sul serio il suo corpo a corpo teorico con l’opera di Marx, che altri ritengono “palloso” o “anacronistico”. Quindi, non mi scandalizzano né la sua dimostrazione “scientifica” - testi di Marx in mano - dei mitologemi sulla “classe operaia” o le critiche feroci ai grundissisti o il suo rifiuto di un comunismo umanistico e compensatorio. Né i suoi inviti ad andare oltre Marx, a guardare oltre l’orizzonte, a prendere atto dell’incontrollato potere dei «funzionari del capitale». O le sue sottolineature insistenti sul conflitto contro ogni pigra convinzione di comportamenti sostanzialmente miranti alla pace o tutto sommato razionali nella gestione dell’economia (la sua critica al minimummax )….
7.5. Non lo seguo, però, quando l’invito alla conoscenza scientifica della nuova realtà, a sollevarsi dalla chiacchiera sul contingente e immediato verso la teoria (e una «nuova teoria») e a lavorare per i tempi lunghi, secondo me scivola (per impazienza, per eccesso di indignazione contro i “traditori”, per vagheggiamento di “repulisti rivoluzionari”) verso l’invocazione di figure mitiche, come quelle del «Grande Chirurgo» che dovrebbe sanare il corpo in cancrena della nazione. Posso sbagliarmi, ma è come se egli smettesse l’abito scientifico dell’indagatore e del pioniere e girasse a vuoto, sprecandosi in invettive dai toni “danteschi”, “poetici” contro il vecchio mondo corrotto (soprattutto della “sinistra” e dei suoi “intellettuali”) o questa specie di gente nova, che più che arrivata al potere si è adattata al servizio dei dominatori (statunitensi) Non che mi senta di frenare la sua indignazione. Ma di mostrarne l’inefficacia comunicativa e forse l’appannamento dello stesso sguardo scientifico, sì.
7.6 La Grassa è ancora uno dei pochi veri intellettuali in grado di guardare ai grandi del passato, ai punti di maggior conflitto della storia, quando ai dirigenti politici vengono richieste azioni eccezionali.[44] I suoi maestri sono stati i grandi comunisti e i grandi illuministi; e perciò non sopporta il moralismo a sfondo più o meno religioso, l’esaltazione col tempo diventata sempre più untuosa, ipocrita o genericamente libertaria della natura umana ”buona” o dell’eguaglianza tra gli uomini, convinzioni continuamente smentite nei fatti. A volte mi viene anche il dubbio che sia io a sbagliare nel vedere contraddizione tra il suo rigore scientifico e la sua indignazione, laddove, invece, c’è profonda coerenza. Eppure non mi pare del tutto vano chiedersi se questo stile polemico-comunicativo contribuisca a delineare il che fare? di cui in tanti sentiamo la mancanza. Siamo davvero in tempi di “termidoro postmoderno” e le uniche soluzioni pensabili sono le congiure alla Babeuf o il “sogno” più o meno ad occhi aperti dell’arrivo del Grande Chirurgo, questa sorta di derivato “moderno” del Grande Veltro? Non vorrei che la critica alla “sinistra” e la potatura dell’albero di Marx portassero, per reazione, ad accettare più del necessario il “vecchio” del pensiero che fu della Destra. Il che non significherebbe avanzare verso il “nuovo” o la “realtà”.[45] Se, messa da parte la lotta di classe come un ferrovecchio otto-novecentesco, dovessimo davvero ripartire da un risorgimento nazionale, come si fa a “formare un buon italiano” e contemporaneamente a evitare gli accecamenti nazionalistici? Io ci andrei, insomma, più cauto. E qui viene buono, secondo me, l’invito di Fortini morente: «proteggete le nostre verità».
7. 7. La preferenza di La Grassa per il Marx scienziato sociale ha ottime giudtificazioni, ma non me la sento di considerarla l’unica scelta possibile. Ci sono alcune buone ragioni per non cancellare anche il Marx filosofo, anche se circolano letture filosofiche ambigue, ripetitive, rituali. Marx non è stato filosofo per un errore di gioventù. Certamente egli «ha scritto Il Capitale» ed è «il fondatore della “critica dell’economia politica”» e da ciò anche le letture filosofiche non dovrebbero prescindere, ma gli sviluppi scientifici del suo pensiero non devono far trascurare la fecondità delle riflessioni filosofiche precedenti, che - forse si potrebbe dire - hanno fatto non solo da “concime” ai risultati più scientifici e fondamentali (non solo per La Grassa),[46] ma aiutano ancora oggi a continuare l’interrogazione su aspetti della realtà diciamo “antropologici” da cui il metodo scientifico necessariamente astrae. Quel che accade - ed è un esempio fatto dallo stesso La Grassa - per la scienza galileana, la cui esistenza non impedisce che milioni di uomini e donne continuino a seguire concezioni più approssimative e a regolare i loro comportamenti in base a quelle e non alla scienza,[47] accade anche alla teoria di Marx. E se è vero che avere acesso all’opera di Marx scienziato permette di guardare la vita delle società in modo meno ingenuo, non unicamente legato all’«apparenza sensibile delle cose e dei processi», resta aperto il problema - fondamentale per la politica - dello scarto tra sapere degli specialisti (i “dotti” di una volta) e saperi della “gente comune”, che non si risolve sbeffeggiando i creduloni o denunciando illuministicamente che essi sono manovrati da ideologi furbastri. Questo gap potrebbe essere insuperabile anche in tempi storici lunghissimi, ma può la politica non tentare di rifare il “miracolo scientifico” che riuscì a Lenin (sia pur per poco nel 1917), quando mise in contatto i due sistemi di pensiero (quello scientifico e quello mitico-religioso delle “masse”)? O dobbiamo prendere atto che i due sistemi rimarranno per sempre nettamente separati, inconciliabili, incomunicanti e indifferenti l’uno all’altro, per cui da una parte avremo sempre e solo élite o scienziati e dall’altra esclusivamente masse manovrabili a piacimento? Anche questo è un problema che io manterrei aperto.
Gli anni Settanta nel «panorama storico» di La Grassa
1. Tempo fa un giovane storico mi confidò che, a suo parere, molti colleghi più anziani di lui erano rimasti fissati (questo il termine usato) agli anni Settanta. Non gli dissi che anch’io, senza essere storico, torno spesso su quegli anni; e, anzi, ho tentato invano di indurre amici, che come me da lì politicamente e culturalmente vengono, a rifletterci assieme. La damnatio memoriae non cede. Ogni tanto, però, scopro con piacere che qualcuno non li liquida come «i peggiori della nostra vita»[1] e ci torna su quegli anni in modi non banali.
È il caso di Raffaele Donnarumma, che in un saggio dedicato al «terrorismo nella narrativa italiana»,[2] si attesta sulla posizione moderata di chi «combatte da anni per impedire l’equiparazione tra gli anni Settanta e gli anni di piombo»[3] e così sintetizza il trapasso da un’epoca a un’altra avvenuto allora:
«L’impressione che gli anni tra il 1968 e il 1978, per scegliere come estremi imprecisi le date simbolo della contestazione e dell’omicidio di Aldo Moro, siano stati l’ultima età eroica della Repubblica – l’ultima età, cioè, in cui i destini personali si potevano identificare con quelli collettivi, in cui si consumavano i grandi conflitti, e in cui ciascuno poteva legittimamente pretendere di fare la storia – porta con sé una certa aria di retorica e di nostalgia, ma è tutt’altro che infondata». (p. 437)
Il saggio mi pare ottimo non per il giudizio più o meno “equanime” oggi comune a molti ex-sessantottini e che a me pare “addomestichi” un po’ la storia di allora, ma perché, occupandosi d’immaginario letterario (e dichiaratamente soltanto di quello narrativo) e distinguendolo correttamente dalla verità storica (i due piani, dice, «sono sempre sfalsati»), esamina diversi casi di scrittori allora di punta[4] e dimostra quanto gli eventi furono vissuti mitologicamente[5] e in preda ad una «angoscia di spossessamento di fronte agli avvenimenti». Tale sentimento non riguardò, per la precisione, solo narratori o “intellettuali”, ma fu diffuso tra la “gente comune”. Come lo furono le ambivalenze nei confronti del terrorismo[6] e un groviglio, mai chiarito e contraddittorio, di paure, aspirazioni e ideologie, tanto che, come sottolinea Donnarumma, una memoria condivisa su quei fatti è tuttora impossibile.[7] E il lavoro degli storici, anticipo, non è riuscito a ridurre di molto questa oscurità. Un’affermazione che Donnarumma fa, quasi en passant, sul Pci di allora, che «sino alla metà degli anni Settanta, negava l’esistenza di una lotta armata di ispirazione marxista», (p. 450-451) mette poi il dito sulla principale causa politica di tale oscurità; e può introdurre la revisione di quegli anni compiuta da Gianfranco La Grassa in due suoi scritti apparsi di recente sul sito CONFLITTI E STRATEGIE: Un decennio cruciale e Un succinto panorama storico (del tutto personale, non da storico).[8] Altre revisioni sono in corso d’opera, a riprova che almeno i “vecchi” su quelle vicende riflettono,[9] ma questa di La Grassa[10] mi ha attratto e sfidato, per la sua radicale critica non solo alle posizioni della sinistra comunista, poi diventata semplicemente “democratica”, ma anche al “sessantottismo”, che allora contestò la “sinistra storica” e il “sistema” e che fu la matrice del mio impegno militante (dal 1968 al 1976) in Avanguardia Operaia.
2. Perché cruciali per La Grassa gli anni Settanta? Perché, detto in sintesi, sono gli anni del «compromesso storico», un «mutamento fondamentale», che ha segnato la decisiva e non scontata «svolta in senso filo-atlantico» del Pci, il più grande partito comunista d’Occidente (come si diceva in quegli anni), ed ha condizionato la successiva storia italiana. Egli così riassume le tappe principali di quel decennio: 1) 1973: lettura berlingueriana del colpo di Stato in Cile (11 settembre); 2) 1975: firma del patto sulla scala mobile tra la Confindustria guidata da Agnelli, rappresentante principale del capitale famigliare “privato” e Lama, rappresentante dei sindacati in cui allora predominava la CGIL; 3) 1976: appoggio esterno del Pci al Governo di unità nazionale di Andreotti; 4) 1978: viaggio a Washington del “primo ambasciatore” (non ufficiale) del Pci, Giorgio Napolitano, allora considerato il n. 2 della corrente “amendoliana”[11]; 5) ancora 1978: «affaire Moro»,[12] che vide Dc e Pci rifiutare le trattative per la liberazione dello statista democristiano, mentre il Psi, che dal ’76 era guidato da Bettino Craxi, si mostrò più “flessibile”; 6) 1980: sconfitta della Cgil alla Fiat sancita dalla “marcia dei 40.000 quadri”, dopo l’inefficace sciopero dei 35 giorni.
3. Nel secondo scritto, un corposo saggio, gli anni Settanta vengono riesaminati in un «panorama storico» che va dalla caduta del fascismo ad oggi. Per La Grassa quegli anni, proprio per essere stati gli anni del «compromesso storico» (aspetto politico principale), non sono riducibili ad “anni di piombo”, a “storia criminale” da imputare, secondo una stupida moda, al “comunismo”[13] (aspetto politico secondario, per quanto drammatico e scioccante sul piano dell’immaginario). La lotta politica, che allora si svolse, fu ben più complessa di quanto appaia o si sappia, perché su quegli anni è prevalso «complessivamente un atteggiamento di nascondimento della realtà». La nascose, tra gli altri, il Pci, il quale fece mostra di vedere nelle Brigate Rosse esclusivamente la “reazione in agguato” (solita Cia o Fbi, ecc.). L’hanno nascosta pure la “sinistra comunista” (ingraiani) e i gruppi extraparlamentari (Avanguardia operaia, Lotta Continua, il manifesto-Pdup), che cercarono di separare come potevano la problematica del “terrorismo” (o della violenza armata) da quella dei movimenti del ’68-69, che pur si dicevano (almeno in certi settori) “rivoluzionari”, riconobbero solo man mano che i “terroristi”[14] appartenevano “all’album di famiglia” e comunque diedero una interpretazione del fenomeno, che egli giudica «buonista e democraticista». Per la precisione, secondo La Grassa, i silenzi o le reticenze hanno riguardato: 1) «la sconfitta del “socialismo”, pur non ancora sanzionata ufficialmente dal 1989»; 2) l’atteggiamento diffuso di rivolta e di resistenza di vari ambienti del Pci al compromesso storico e alla (per La Grassa) «ormai evidente (pur mascherata) svolta del Pci» in senso filo atlantico;[15] 3) «il sommovimento, coperto, che si stava producendo all’est pur nell’apparente immobilismo e cristallizzazione dell’epoca brezneviana» (il 1968 cecoslovacco, i successivi fatti polacchi (Walesa, ecc.), ma anche «le fratture a livello delle dirigenze dei paesi europei orientali», almeno di quelle (Cecoslovacchi, tedeschi della DDR, ecc) che cominciavano a temere troppo dai cedimenti progressivi di settori dell’Urss (che poi prenderanno il potere con Gorbaciov) verso gli Usa». Contestualizzati storicamente (sia pur «da non storico») gli anni ’70, La Grassa procede a una revisione severissima della politica dell’intera sinistra; e in particolare della storia dei gruppi dirigenti del Pci[16] e del «“sessantottismo” movimentista». Egli vede in quel decennio la gestazione lenta[17] di processi, che, dopo il “crollo del muro” di Berlino del 1989 e della dissoluzione dell’Urss (1991), verranno sempre più a galla. Sempre però - aggiunge - in forme deviate, distorte, tanto da bloccare la vita politica italiana per oltre un ventennio sul dilemma “Berlusconi sì oppure no”, mascherando ben altri, più reali, pesanti e irrisolti dilemmi di politica interna e internazionale (soprattutto nei confronti degli Usa).
4. Quel decennio per La Grassa è cruciale per un’altra ragione: ha visto ripetersi in altre forme le scelte trasformistiche che avevano già caratterizzato la storia italiana al momento della caduta del fascismo, tanto che è possibile stabilire un’analogia[18] tra gli eventi del ’43-45 e quelli degli anni Settanta. Come allora, per La Grassa, vinse «“l’antifascismo dei traditori”», così negli anni Settanta hanno vinto, a partire dal «compromesso storico», «quelli che hanno tradito la storia del Pci».[19] Semplificando qui il suo ragionamento, egli sostiene questo: il gruppo dirigente del Pci s’era convinto da tempo che in Urss, paese di riferimento della sua politica, non era in atto nessuna costruzione del socialismo; e che quel sistema non era correggibile con “iniezioni di democrazia”;[20] ma, invece di iniziare (subdolamente e in modi mascherati) una svolta filo atlantica e finire per subordinarsi agli Usa (come già aveva fatto, appunto, “l’antifascismo del tradimento”[21] dal ‘43), avrebbe dovuto/potuto puntare, sia pur in una logica difensiva del “salviamo il salvabile”, a far nascere una buona socialdemocrazia; questa avrebbe potuto giocare le sue carte sul piano internazionale a favore di una ostpolitik, che avrebbe rafforzato un’autonomia dell’Italia, purtroppo sempre conculcata;[22] invece, con il «compromesso storico» il Pci si è consegnato definitivamente tra le braccia stritolatrici del capitalismo famigliare (Fiat in primis) e degli Usa, che di quel capitalismo italiano da sempre si sono serviti come loro agente principale e più fido.
5. La Grassa ripropone, dunque, alcune ipotesi non inedite, ma scomodissime, aleggiate in passati dibattiti, ma poi accantonate e silenziate:
5.1. Con un non troppo implicito accostamento tra l’uccisione di Moro e l’omicidio di Enrico Mattei nel 1962,[23] egli ripropone la tesi che Moro poteva essere salvato e invece fu deciso (da chi?) di farlo perire:
«si verifica l’affaire Moro, i cui contorni non sono ancor oggi per nulla chiariti (anzi sono del tutto oscuri), salvo lo schieramento dei partiti: Dc e Pci per non trattare affatto e lasciar condannare lo statista diccì, il Psi interessato a salvarlo. Ci si dice, ormai da qualche tempo, che era stato infine scelto di intavolare una trattativa, ma che qualcuno suggerì ai brigatisti di uccidere Moro poche ore prima che venisse ufficialmente annunciata tale decisione. Non mi pronuncio perché la faccenda è rimasta sempre avvolta nella nebbia più fitta. In ogni caso, rilevo solo quelle posizioni: Dc-Pci, in pieno “compromesso storico”, stretti assieme nell’intransigenza, il nuovo Psi interessato a rompere questa tenaglia salvando Moro. Uscendo vivo, questi non avrebbe rivelato pubblicamente nulla, ma avrebbe saputo come agire nei confronti di chi non sembrava volerlo vivo. Ecco una pagina di storia che qualcuno dovrebbe chiarire; ma occorre una nuova generazione, che esca dalla putrefazione preparata fin da allora e attuata dopo il 1991, anche tramite l’operazione “mani pulite”».[24]
5.2. È esistito ed esiste nella storia italiana un contrasto sordo tra un capitalismo familiare e un capitalismo pubblico, contrasto che oggi La Grassa giudica ben più determinante di quello tra capitale e lavoro, specialmente se si tenga presente la cornice della storia mondiale, che ha visto il passaggio irreversibile da un capitalismo industriale ottocentesco (quello ben studiato e scientificamente rappresentato nell’opera di Marx, soprattutto in Das Kapital) a nuove forme di capitalismi (il plurale è decisivo per La Grassa), che sono guidati da inedite figure di capitalisti, i «funzionari del capitale», non più assimilabili ai rentier o ai “padroni delle ferriere”. E il prototipo moderno dei nuovi capitalismi, affermatosi per la prima volta proprio negli Usa ai tempi della Prima guerra mondiale, è per La Grassa mille volte preferibile a quello borghese e familiare,[25] che tuttora domina in Italia (ma subordinato, però, a quello statunitense) non può essere capito e affrontato con la sola teoria del conflitto capitale/lavoro di Marx.[26] In tutto il suo «panorama storico» La Grassa torna con insistenza su questo punto. Il blocco di potere legato alla Fiat e agli Agnelli alla testa della Confindustria ha giocato in Italia un ruolo deleterio. Perché questo capitalismo familiare[27] ha stabilizzato la “ridotta modernità” dello sviluppo industriale italiano subordinandolo a quello statunitense.
5.3. Altrettanto nefasta è sul piano culturale per La Grassa l’azione svolta dal quotidiano Repubblica. Fondato nel gennaio 1976, esso si distinse da subito per il suo appoggio al “compromesso storico”. Particolarmente in tema con questo numero di «Poliscritture» su revisioni e revisionismi è quanto La Grassa scrive sul contributo dato da «Repubblica» al «profondo snaturamento dell’antifascismo resistenziale». Il giornale ha per lui incoraggiato una lettura democraticistica della Resistenza, presentata esclusivamente come processo di “liberazione”, soprattutto grazie agli americani, dal giogo nazifascista.[28]
5.4. Craxi avrebbe potuto costruire un’alternativa al «compromesso storico» e alla «svolta filo atlantica» del Pci. Secondo La Grassa, infatti, il leader del Psi, avendo ormai rotto con la tradizione del socialismo italiano, voleva una vera modernizzazione dell’Italia. Egli avrebbe dovuto conquistare forti appoggi nel settore del capitale pubblico e non sprecare l’occasione di allearsi con gli amendoliani (la “destra” del Pci, i “miglioristi”). Questi, a suo avviso, erano «veri socialdemocratici interessati alla produttività del sistema, allo sviluppo di imprese di grandi dimensioni ma di punta, cui dovevano collegarsi i cosiddetti “ceti medi produttivi”, i piccolo-medi imprenditori, i lavoratori “autonomi”, ecc.»; e soprattutto rappresentavano all’interno del Pci una corrente «tendenzialmente filo-sovietica», che, interessata all’ostpolitik, puntava a uno sviluppo delle imprese strategiche italiane, che non si confinasse nell’atlantismo di marca statunitense e «avrebbe dunque potuto tentare la carta di una maggiore autonomia nazionale». Tale prospettiva fallì per limiti culturali di Craxi. Il leader socialista non capì che il comunismo non esisteva più né in Urss né nell’Europa orientale e tanto meno in Amendola, e, intestardito nel contrastare il Pci, imboccò la via (nell’immediato impraticabile dagli amendoliani) di rivalutare Proudhon contro Marx. La cecità “anticomunista” di Craxi gioverà all’altra “corrente” del Pci, quella ingraiana, che, alleatasi con Berlinguer, svolgerà la sua funzione estremamente negativa al momento del crollo del “campo socialistico”.
5.6. Limiti della «“modernizzazione” sessantottesca». Secondo La Grassa il passaggio dell’Italia da paese agricolo-industriale a paese industriale, passaggio avvenuto con il «boom economico» tra 1953 e 1958 e sotto la guida del capitalismo familiare,[29] produsse un imponente inurbamento di masse contadine (il cosiddetto «esodo biblico» delle migrazioni interne) e anche un ingresso nelle università di molti figli dei «ceti “piccolo-borghesi” in arricchimento». Ne derivò «una sorta di “connubio conflittuale”» tra le masse di lavoratori che passavano dalla condizione contadina a quella operaia e il capitalismo italiano familiare. Su tali fenomeni s’innestarono le letture dei gruppi extraparlamentari, che videro nella classe operaia il vero «soggetto rivoluzionario». Ma i gruppi finirono per usare una teoria di Marx già deformata da Kautsky.[30] E diedero interpretazioni altrettanto errate dei Grundrisse,[31] alimentando attese irrealistiche su una «“proletarizzazione” dei tecnici», cioè del «management di medio e medio-alto livello» che si sarebbe potuto/dovuto alleare con la «Classe operaia». Le correnti della sinistra comunista e sessantottesche furono per La Grassa altrettanto superficiali quando si avvicinarono al maoismo e alla stessa scuola althusseriana,[32] interpretando la stessa involuzione “socialistica” (sovietica) «in termini apertamente antileninisti e di semplice “buonismo sociale”» e finendo successivamente per scivolare anch’esse verso il filo-atlantismo berlingueriano. In sostanza, per lui il ’68 fu una «presunta rivoluzione di cui Pasolini colse l’orrore e l’obbrobrio».
5.7. Negli anni Settanta la questione dei «ceti medi» diventò sempre più centrale contro ogni aspettativa dei marxisti ortodossi, senza trovare né allora né dopo una soluzione adeguata da parte di tutti i partiti (di destra e di sinistra) e finendo per alimentare una sua gestione clientelare che ha rafforzato soprattutto i ceti medi improduttivi. Secondo La Grassa dopo il boom, negli anni ’60 e primi ’70, il Pci, soprattutto nella sua parte “migliorista” (socialdemocratica), aveva tentato di costruire una alleanza tra la “classe operaia” e i “ceti medi produttivi”, presenti soprattutto nella zona “bianca” (lombardo-veneta) e in quella “rossa” (toscoemiliana). Quel progetto era un tassello della “via italiana” al socialismo e prevedeva anche «l’alleanza con l’industria pubblica», che il partito avrebbe dovuto sfruttare «in senso antimonopolistico». Da qui lo «statalismo» del Pci, il primato cioè concesso al settore pubblico rispetto al privato (per cui “pubblico era bello e quasi socialista” si potrebbe dire), che però già stava portando al blocco delle forze produttive nelle società dell’Est. Avvenne che, mentre i ceti medi venivano «conculcati ad est», ad ovest il capitalismo, molto più flessibile e smentendo ogni teoria “crollista”, espanse «una sorta di immenso “calderone” di ceti medi, pervasi da una diffusa mentalità “piccolo borghese” (l’“uomo medio”, cioè mediocre, ben dipinto da Pasolini), ma con enormemente differenziati livelli di reddito e con una serie di tipizzazioni professionali e specialistiche ad ogni livello di reddito».[33] E in Italia poi si è arrivati soprattutto ad un ampliamento dell settore dell’impiego pubblico (compreso quello degli Enti locali) «creando così infiniti canali di finanziamento per iniziative che poco contribuivano alla “produttività” dell’insieme».[34]
6. A questo punto va fatto almeno un accenno al «panorama teorico»[35] di La Grassa , che è parte integrante e fondamento della sua lettura degli anni Settanta e del «panorama storico» qui riassunto. In quest’altro scritto La Grassa polemizza contro le correnti letture che insistono a presentare Marx come “umanista” o “profeta” del comunismo o, negli ultimi tempi, come un semplice “anticipatore della globalizzazione”. Egli, invece, chiede di rileggere fuori da ogni illusione umanistica e religiosa una “realtà”, quella dei capitalismi e della storia del Novecento, completamente mutata rispetto all’epoca di Marx. Delle «rovine» di quella tradizione salva Adam Smith, perché la sua antropologia «considera che l’impulso fondamentale è l’egoismo»,[36] e Marx, perché smitizza la libertà e l’eguaglianza della società borghese.[37] Poiché, leninianamente, ritiene che «rimettersi alla concretezza empirica senza alcun orientamento teorico, rischia di condurre proprio all’inesatta valutazione dei reali rapporti di forza tra gruppi sociali, o anche tra individui», si pone e pone il compito di «costruire una nuova teoria», che abbandoni in partenza «ogni visione duale di classi antagonistiche in contrasto»[38] e prenda atto dei «fallimenti del comunismo» e, quindi, anche del fallimento (o della “falsificazione”) di «una serie di previsioni marxiane in merito alla dinamica del modo di produzione capitalistico». Il punto più innovativo e problematico della sua attuale ricerca riguarda il primato che per lui hanno assunto le «strategie per acquisire la supremazia» (e quindi il conflitto, la politica).[39]
7. Ho presentato quanto pensa La Grassa sugli anni Settanta e la storia italiana del dopoguerra. A questo punto sarebbe necessaria una discussione serrata delle numerose questioni che essa pone ai potenziali lettori che volessero vagliarla criticamente. Non è possibile svolgerla in questo numero della rivista e perciò mi limito ad avviarla con alcune mie osservazioni e obiezioni:
7.1. Se confronto la revisione «del tutto personale, non da storico» di La Grassa con quelle che sullo stesso periodo hanno condotto i due o tre storici di professione da me letti negli ultimi anni, salta agli occhi la distanza tra il loro punto di vista in senso lato “democratico” e quello di La Grassa, che non ha rinunciato alla lezione di Marx, di Lenin e di Althusser e, quindi, alla critica della “democrazia”. [40] Basti leggere, in particolare, i lavori di Giovanni De Luna e Paul Ginsborg,[41] mentre più accostabile per alcuni versi ad alcune tesi di La Grassa mi sembra l’analisi di Guido Crainz,[42] che ne Il paese mancato sottolinea sia il fallimento della “modernizzazione conservatrice” sia l’impossibilità del compromesso di tipo socialdemocratico.
7.2. La lettura di questi due scritti mi ha costretto a ripensare l’insieme dei condizionamenti storico-politici che incombevano sulla mia esperienza di “militante politico di base” extraparlamentare.[43] Tenendo in debito conto (ma senza esagerare, perché oggi certe distinzioni politiche di allora sembrano cose da “marziani”…) il grado di vicinanza/distanza tra l’area politica in cui militavo (Avanguardia Operaia) e quella a cui faceva riferimento La Grassa (l’area filocinese), mi sento di dire che ci accomunava la critica al Pci (l’”antirevisionismo”) e ci divideva il giudizio sul movimento del ’68-’69: speranzoso il mio fino all’adesione e alla partecipazione attiva; di critica e di netta condanna, , in parte assimilabile alla polemica pasoliniana “contro gli studenti”. Si potrebbe discutere a lungo se quegli strumenti per leggere la realtà , che io (e altri “piccoli borghesi” come me) avevamo tratto dalla partecipazione “spontanea” al movimento del ’68-’69, ci fornissero una percezione approssimativa o del tutto errata di quegli eventi (Cfr. Tre mesi del 1978 in questo stesso numero di «Poliscritture») e se potevano essere sostituiti da altri più “scientifici” (e più efficaci?). Lascio in sospeso il problema.
7.3. Non si dovrebbe dimenticare che le nostre revisioni degli anni Settanta (e della storia dell’Italia del dopoguerra) vengono compiute - problema non trascurabile - dalla condizione di sconfitti (o di “bastonati dalla storia”, come diceva Fortini). «La storia la fanno i vincitori» è un monito ineludibile. Lo ricordo non per invitare alla rassegnazione o al silenzio, ma per evitare certe ripetizioni (che hanno un sapore luttuoso e mortuario per me) della vecchia critica “antirevisionista” che facevamo al Pci di allora e spendere le residue e migliori energie che abbiamo nell’allargare il più possibile - da “vecchi” quali siamo (le revisioni del passato le fanno quasi sempre i “vecchi”) - il varco per intravvedere qualcosa di più della “nuova realtà”. Da una buona consapevolezza della sconfitta delle nostre speranze di allora (o, per chi ce l’aveva, delle ipotesi teoricamente più salde) dovrebbe nascere un atteggiamento più maturo (meno inquinato dal risentimento, dal catastrofismo, dal disprezzo impotente per i”vincitori” o i “traditori”, dal desiderio di rivincita) sia nella revisione del passato che nell’analisi dei nuovi dati del presente in continuo mutamento.
7.4. La mia personale revisione del passato da tempo si è mossa in una direzione che ho chiamato di esodo (innanzitutto dalla sinistra). Ho fatto mie, sulla scorta di Ranchetti e Fortini, le formule di bilancio drastico della tradizione cristiana (da cui provenivo) e di quella comunista (a cui mi ero accostato appunto a partire dal ’68-’69): non c’è più religione; non c’è più comunismo. È per questo, credo, che, a differenza di altri, ho potuto apprezzare la critica di La Grassa alla sinistra e al Pci, anche se dà una valutazione positiva del ”migliorismo” di Amendola o del periodo staliniano, che ancora oggi non condivido; e prendere sul serio il suo corpo a corpo teorico con l’opera di Marx, che altri ritengono “palloso” o “anacronistico”. Quindi, non mi scandalizzano né la sua dimostrazione “scientifica” - testi di Marx in mano - dei mitologemi sulla “classe operaia” o le critiche feroci ai grundissisti o il suo rifiuto di un comunismo umanistico e compensatorio. Né i suoi inviti ad andare oltre Marx, a guardare oltre l’orizzonte, a prendere atto dell’incontrollato potere dei «funzionari del capitale». O le sue sottolineature insistenti sul conflitto contro ogni pigra convinzione di comportamenti sostanzialmente miranti alla pace o tutto sommato razionali nella gestione dell’economia (la sua critica al minimummax )….
7.5. Non lo seguo, però, quando l’invito alla conoscenza scientifica della nuova realtà, a sollevarsi dalla chiacchiera sul contingente e immediato verso la teoria (e una «nuova teoria») e a lavorare per i tempi lunghi, secondo me scivola (per impazienza, per eccesso di indignazione contro i “traditori”, per vagheggiamento di “repulisti rivoluzionari”) verso l’invocazione di figure mitiche, come quelle del «Grande Chirurgo» che dovrebbe sanare il corpo in cancrena della nazione. Posso sbagliarmi, ma è come se egli smettesse l’abito scientifico dell’indagatore e del pioniere e girasse a vuoto, sprecandosi in invettive dai toni “danteschi”, “poetici” contro il vecchio mondo corrotto (soprattutto della “sinistra” e dei suoi “intellettuali”) o questa specie di gente nova, che più che arrivata al potere si è adattata al servizio dei dominatori (statunitensi) Non che mi senta di frenare la sua indignazione. Ma di mostrarne l’inefficacia comunicativa e forse l’appannamento dello stesso sguardo scientifico, sì.
7.6 La Grassa è ancora uno dei pochi veri intellettuali in grado di guardare ai grandi del passato, ai punti di maggior conflitto della storia, quando ai dirigenti politici vengono richieste azioni eccezionali.[44] I suoi maestri sono stati i grandi comunisti e i grandi illuministi; e perciò non sopporta il moralismo a sfondo più o meno religioso, l’esaltazione col tempo diventata sempre più untuosa, ipocrita o genericamente libertaria della natura umana ”buona” o dell’eguaglianza tra gli uomini, convinzioni continuamente smentite nei fatti. A volte mi viene anche il dubbio che sia io a sbagliare nel vedere contraddizione tra il suo rigore scientifico e la sua indignazione, laddove, invece, c’è profonda coerenza. Eppure non mi pare del tutto vano chiedersi se questo stile polemico-comunicativo contribuisca a delineare il che fare? di cui in tanti sentiamo la mancanza. Siamo davvero in tempi di “termidoro postmoderno” e le uniche soluzioni pensabili sono le congiure alla Babeuf o il “sogno” più o meno ad occhi aperti dell’arrivo del Grande Chirurgo, questa sorta di derivato “moderno” del Grande Veltro? Non vorrei che la critica alla “sinistra” e la potatura dell’albero di Marx portassero, per reazione, ad accettare più del necessario il “vecchio” del pensiero che fu della Destra. Il che non significherebbe avanzare verso il “nuovo” o la “realtà”.[45] Se, messa da parte la lotta di classe come un ferrovecchio otto-novecentesco, dovessimo davvero ripartire da un risorgimento nazionale, come si fa a “formare un buon italiano” e contemporaneamente a evitare gli accecamenti nazionalistici? Io ci andrei, insomma, più cauto. E qui viene buono, secondo me, l’invito di Fortini morente: «proteggete le nostre verità».
7. 7. La preferenza di La Grassa per il Marx scienziato sociale ha ottime giudtificazioni, ma non me la sento di considerarla l’unica scelta possibile. Ci sono alcune buone ragioni per non cancellare anche il Marx filosofo, anche se circolano letture filosofiche ambigue, ripetitive, rituali. Marx non è stato filosofo per un errore di gioventù. Certamente egli «ha scritto Il Capitale» ed è «il fondatore della “critica dell’economia politica”» e da ciò anche le letture filosofiche non dovrebbero prescindere, ma gli sviluppi scientifici del suo pensiero non devono far trascurare la fecondità delle riflessioni filosofiche precedenti, che - forse si potrebbe dire - hanno fatto non solo da “concime” ai risultati più scientifici e fondamentali (non solo per La Grassa),[46] ma aiutano ancora oggi a continuare l’interrogazione su aspetti della realtà diciamo “antropologici” da cui il metodo scientifico necessariamente astrae. Quel che accade - ed è un esempio fatto dallo stesso La Grassa - per la scienza galileana, la cui esistenza non impedisce che milioni di uomini e donne continuino a seguire concezioni più approssimative e a regolare i loro comportamenti in base a quelle e non alla scienza,[47] accade anche alla teoria di Marx. E se è vero che avere acesso all’opera di Marx scienziato permette di guardare la vita delle società in modo meno ingenuo, non unicamente legato all’«apparenza sensibile delle cose e dei processi», resta aperto il problema - fondamentale per la politica - dello scarto tra sapere degli specialisti (i “dotti” di una volta) e saperi della “gente comune”, che non si risolve sbeffeggiando i creduloni o denunciando illuministicamente che essi sono manovrati da ideologi furbastri. Questo gap potrebbe essere insuperabile anche in tempi storici lunghissimi, ma può la politica non tentare di rifare il “miracolo scientifico” che riuscì a Lenin (sia pur per poco nel 1917), quando mise in contatto i due sistemi di pensiero (quello scientifico e quello mitico-religioso delle “masse”)? O dobbiamo prendere atto che i due sistemi rimarranno per sempre nettamente separati, inconciliabili, incomunicanti e indifferenti l’uno all’altro, per cui da una parte avremo sempre e solo élite o scienziati e dall’altra esclusivamente masse manovrabili a piacimento? Anche questo è un problema che io manterrei aperto.